Le mie riflessioni sul libro “Oh William!” di Elizabeth Strout

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Copertina del libro “Oh William!” di Elisabeth Strout con il mio logo

Ho scelto di leggere “Oh William!” perchè in ogni luogo, reale o social, se ne tessevano le lodi. Decido di fidarmi delle ottime recensioni, non mi soffermo su chi sia l’autrice, prendo il libro e comincio a leggere.

Non riesco però ad entrare in sintonia con la protagonista. Avete presente quando leggi e ti sembra di essere veramente lì, accanto ai personaggi, e ridi e soffri con loro? Invece Lucy, la protagonista, non mi suscita nè simpatia, nè avversione, mi lascia indifferente, anzi prendo le distanze da lei e da quello che le accade. Ad un certo punto la lettura mi diventa difficoltosa, a tal punto da scegliere di abbandonare il libro. Leggo altri romanzi. Ma ogni volta che entro sul telefono per leggere altro (vi ricordate? leggo praticamente solo e-book), mi viene ricordato che non ho terminato il romanzo della Strout.

Rileggo le recensioni, non ne trovo quasi di negative e mi chiedo perchè questa lettura mi sia così ostica.
Leggo la biografia della scrittrice e realizzo che per il suo libro “Olive Kitteridge” ha vinto un premio Pullitzer, ed è uno dei rarissimi romanzi che io non sono riuscita a finire: mi ricordo benissimo, mi era stato prestato un giorno che, in vacanza, avevo terminato tutti i libri che mi ero portata dietro. Questa volta ne faccio quindi una questione di onore e decido che le dò una possibilità, o forse a me?, e riprendo la lettura di “Oh William!”

William è l’ex marito della protagonista, Lucy Barton, scrittrice affermata, rimasta recentemente vedova dell’amatissimo David, madre di due figlie, con le quali ha un buon rapporto.
La storia è incentrata sul rapporto con il primo marito, col quale ha mantenuto nei corso dei vent’anni dalla separazione un rapporto di amicizia, anche profonda. Per una ragione importante, una ricerca sul passato della madre di William, partono insieme alla scoperta delle origini di quest’ultimo.
Non accadono molte cose, e comprendo che l’autrice è più interessata a raccontarci lo stato d’animo delle persone che degli avvenimenti. Ci narra le difficoltà dell’uomo ad affrontare questo mondo quando si ha una famiglia d’origine che non ti ha nè amata, nè supportata; narra la fatica di gestire le relazioni sociali quando ti senti invisibile, l’incomprensione delle azioni degli altri, l’estraneità di fronte a situazioni nuove come viaggiare o organizzare una festa.

Sono una che si sente invisibile – l’ho già detto – eppure in quella circostanza avevo la stranissima sensazione di essere contemporaneamente invisibile e dotata di un faretto sopra la testa il cui messaggio era: Questa ragazza non sa niente di niente.

Buona parte della narrazione è incentrata sui sentimenti e i ricordi del matrimonio di Lucy e William. Non ne vengono narrati gli episodi ma le sensazioni che sono scaturite durante i loro dieci anni insieme, facendo emergere quanto sia difficile mantenere i confini delle proprie individualità all’interno di una relazione amorosa. Ci si interroga su come la passione con gli anni si trasforma, superando difficoltà, tradimenti, genitorialità, cercando di bilanciare vita personale e vita lavorativa, e alla fine forse non ne resta più, o forse diventa altro, dell’amore snetimentale e dell’intimità profonda.

E l’autrice non ci offre spunti per trovare le risposte:

Siamo tutti un mistero, ecco che cosa voglio dire. Potrebbe essere l’unica cosa al mondo che so per certo.

“Oh William!” è l’intercalare che si ripete in continuazione nel libro, con senso differente, ad indicare, di volta in volta, lo sfinimento, le difficoltà, le incomprensioni, la disperazione: i sentimenti che ci portiamo dentro quando si vive e si cambia, il bagaglio che ci trasportiamo di sogni infranti, successi e delusioni.
Il libro mette in luce le fragilità di una donna, ma anche di tutta una fascia sociale che non è quella dell’America benestante, ma dei bianchi emarginati, miserabili: economicamente e socialmente.

E’ già il secondo libro che leggo quest’anno (questo è l’altro) che racconta l’America vista con gli occhi di chi non crede molto al sogno americano, alla possibilità di poter diventare un giorno ricco e famoso, se sei nato in fondo ad una via checonduce nel nulla, in mezzo ad una campagna infinita, ridicolizzato e bullizzato dai tuoi pari, che ti fanno sentire inferiore.
La Strout è stata la prima scrittrice statunitense a parlare di questa parte della popolazione, la cosiddetta “white trash”, e Lucy ne è un po’ l’emblema in questo libro, ma anche nei due precedenti che raccontano gli anni precedenti della sua vita (mi sono informata, non li ho letti).

Va detto però che non ho mai afferrato i meccanismi del sistema di classi americano, perché io arrivavo dal fondo assoluto e quello è un marchio che non ti levi più. Voglio dire che non sono mai riuscita a superare le mie origini, la miseria, credo sia questo.

Alla fine il mio giudizio non è affatto negativo. Anzi.
E’ solo un libro diverso da quelli che amo io, di solito, e che tendo a leggere tutti in un fiato. Quelli nei quali mi calo talmente tanto da sentirmi parte del racconto stesso.
E’ più una riflessione condivisa tra la scrittrice ed il lettore sui casi della vita.
E’ un’occasione per pensare, per fermaris a riflettere sui grandi drammi e le infinite gioie della vita stessa, di ognuno di noi.

E’ uno spunto per fermarci e porci delle domande per scavarci dentro.

Ma quante volte capita alle persone di scegliere veramente? Dimmi una cosa. Credi di aver proprio scelto di lasciare la tua famiglia? No, io ti osservavo, e tu… tu te ne sei andata e basta; come se non potessi fare altro. E io? Secondo te io ho scelto di farmi tutte quelle storie? […] Ma io ci ho riflettuto, Lucy, ci ho riflettuto tanto e vorrei sapere… ci terrei davvero… quando succede che una persona scelga davvero qualcosa? Dimmelo tu.

Ci ho pensato un momento. Ha proseguito: – A volte mi convinco che possa succedere del tutto occasionalmente. Per il resto del tempo andiamo dietro a qualcosa, non sappiamo nemmeno a cosa di preciso ma ci andiamo dietro lo stesso, Lucy. Quindi, no, non credo che tu abbia scelto di andartene. Un momento dopo ho chiesto: – Nel senso che tu non credi nel libero arbitrio?

William si è portato un attimo le mani alla testa. – Oh, lascia perdere la stronzata del libero arbitrio, ha detto. Andava avanti e indietro parlando, e si è passato le dita fra i capelli bianchi. È come… non so, è come trascinare nel discorso un’immensa sovrastruttura pesantissima, parlare di libero arbitrio. Io parlo solo di scegliere fra una cosa e un’altra. Ascolta, conoscevo un tale che lavorava nell’amministrazione Obama, e aveva il compito di aiutare nelle varie scelte. E mi diceva che rarissimamente capitava di dover decidere veramente qualcosa. Mi è sempre sembrato molto interessante. Perché è vero. Facciamo cose, Lucy, tutto qui.

Non ho replicato.

Pensavo che l’anno prima di lasciare William quasi ogni sera aspettavo che si addormentasse e uscivo nel nostro minuscolo giardino e mi dicevo: Che devo fare? Vado? Resto? Al tempo mi era sembrata una scelta. Ma ricordandola adesso, mi sono resa conto che perfino quell’anno non avevo mai fatto un solo passo che potesse riportarmi dentro al matrimonio; mi ero tenuta lontana, per conto mio, voglio dire. Anche se avevo la sensazione di dover decidere.

Una volta un’amica mi ha detto: – Quando mi capita di non sapere che cosa fare, osservo sempre quello che già sto facendo. E quello che già stavo facendo io, quell’anno, era andarmene, anche se non me n’ero ancora andata.

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